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L'albero della conoscenza

donatellagambini

Tra gli Dei venerati nell’antica Roma c’era Giano bifronte, raffigurato da una testa con due volti contrapposti, a significare che molti aspetti della vita includono due entità opposte tra loro. L’esistenza stessa racchiude in sé la nascita e la morte: l’unica certezza che si ha quando si viene al mondo e che prima o poi quell’esistenza terminerà.

Perché partire da questo esempio? Perché anche la conoscenza è così: sapere aiuta a prendere decisioni più corrette o più opportune a seconda dei casi, ma al tempo stesso può esporci a verità scomode, sgradevoli, che potrebbero turbare, rovinare, peggiorare la nostra esistenza.

E allora che cosa è meglio?

Nel campo delle malattie, specie dei tumori, fino a qualche decennio fa la risposta è stata: non sapere. Il cancro a livello di comunicazione è stato avvolto dal silenzio, dalla negazione, dall’occultamento. Ancora oggi i pazienti più anziani parlano del “brutto male”, sempre innominabile.

Per fortuna però le cose sono cambiate, la società da questo punto di vista si è stravolta, la comunicazione ha fatto un balzo mostruoso grazie alle potenzialità dei mezzi di diffusione, sono caduti censura e tabù e si sono rese facilmente disponibili moltissime informazioni.

I medici hanno appeso al chiodo il camice del paternalismo e hanno indossato quello dell’informazione obiettiva e del consenso informato. Forse perdendo un po’ di empatia.

Così giustamente i pazienti ora sanno, chiedono e ricevono spiegazioni sempre più esaurienti, ma prendono coscienza anche precocemente di situazioni equivalenti a condanne.

Ecco perché Giano bifronte, mi informo, ma quello che apprendo potrebbe peggiorarmi la vita.

Ma come ci si informa? I medici informano per quello è dovuto: che malattia si ha, come si cura, effetti collaterali, prognosi. A domande più dirette, forniscono risposte più precise.

Mi sono però sono accorta in questi anni che molte volte restano sacche di “ignoranza”, da intendere nel senso letterale del termine (non sapere, non conoscere) per colmare le quali occorre partire da lontano.


Per secoli la Cultura è stata intesa solo come umanistica. Essere colti era, chiamiamolo così, uno degli status symbol di quell’epoca, solo i ceti più abbienti avevano accesso alla Cultura e declamare in latino distingueva il ricco dal povero, il potente dal volgo, prima ancora che il colto dall’ignorante. Tutti i rappresentanti del potere studiavano materie umanistiche e, da esperti e conoscitori di quelle, non facevano altro che perpetuare la trasmissione dell’unica cultura di cui erano depositari, perché ancora una volta il legame tra cultura e potere era inscindibile.


Le scienze? Di serie B, sempre. Lasciando stare Galileo, perché è un discorso almeno in parte differente e sarebbe comunque troppo facile, solo con la riforma Gentile nel 1923 in Italia si istituì il Liceo Scientifico (e allora, pur con tutti i ma legati al peculiare periodo storico, ai diplomati era impedito il successivo accesso a giurisprudenza e quindi a molte professioni allora esercitate da chi ricopriva ruoli di potere). È trascorso quasi un secolo da allora, ma ancora oggi, nel sentire popolare, il classico è un’altra cosa.

Da anni nel mio piccolo cerco di portare avanti il concetto che conoscenza e cultura non hanno invece una classifica, non c’è una serie A e una serie B.

I luoghi comuni sono duri a morire ed è incredibile come l’assenza di metodo scientifico si veda anche in queste cose. “Il latino apre la mente, insegna a ragionare”, chi non ha mai sentito pronunciare queste frasi? Potrebbe essere vero che insegna a ragionare, anzi molto probabilmente lo è; ma insegnano a ragionare anche la matematica e la geometria, non ci sono studi di confronto adeguati e affidabili su quale materia insegni a ragionare “meglio”. Qui qualcuno mi contesterà. “Gli studenti del classico che affrontano discipline universitarie anche scientifiche sono più bravi, hanno più metodo”. Non conosco nel dettaglio i numeri, ma ho letto di affermazioni del genere. Potrebbe essere vero. Ma…In primo luogo c’è un possibile bias di selezione (cioè un potenziale fattore confondente). Potrebbe essere infatti molto verosimile che chi si iscrive al liceo classico è mediamente più “bravo” a scuola, ha più voglia di studiare, forse (almeno fino a poco tempo fa), proveniente da ambienti avvantaggiati dal punto di vista socio-culturale (non è un discorso solo di ricchezza); secondo: bravi in che cosa? Voti più alti? Maggior numero di laureati nel tempo programmato? E poi “nella professione”? Nella “vita”?

Lungi da me criticare le materie umanistiche, anzi, solo vorrei sottolineare come la Cultura dovrebbe essere una miscela o meglio un’emulsione[1] in cui le diverse parti riescono a stare insieme pur essendo molto diverse, contribuendo a creare un prodotto qualitativamente eccellente. Certo diversamente dalla maionese, per la quale se si sbagliano le dosi “impazzisce” e si butta via tutto, dovrebbe prevedere una “elasticità” nei rapporti tra le varie parti a seconda della tipologia di studi scelta, ma sempre con una soglia sotto la quale non scendere, rivalutata spesso per adeguarsi ai cambiamenti e ai bisogni della società.


Bisogna conoscere la radici di quello che siamo, ma bisogna altrettanto guardare intorno a noi e, a seconda dell’ambiente che ci circonda, studiare e conoscere quello in cui siamo immersi. E poi guardare anche in alto e all’orizzonte, per capire che cosa aspettarci e cercare di essere pronti, o ancora tracciare strade per un futuro migliore.


Immaginiamo per un attimo la cultura/conoscenza come un albero secolare.

Le radici sono la conoscenza del passato: è fondamentale curarle, altrimenti l’albero muore. Dal passato traiamo conoscenza preziosa, da conservare, tutelare e tramandare. La storia è maestra di vita sentenziavano gli antichi ed è vero. Ma una volta che il maestro ha insegnato e l’allievo ha appreso, ecco che è il momento di guardare oltre.

E oltre le radici ci sono da una parte il terreno in cui è piantato l’albero, dall’altra il tronco con i rami. Bisogna essere attenti a capire se le caratteristiche del terreno sono cambiate, se è cambiato il clima, affinché attraverso quelle radici venga assorbito il nutrimento adeguato per foglie e frutti. Se cambiano le condizioni, bisogna accorgersene per tempo e adeguarsi, se si può. E se non si può, pensare ad alternative. È lo studio del mondo che ci circonda, della storia e della letteratura contemporanea, della politica, ma anche della scienza nei vari aspetti, studio del clima, geografia, biologia, chimica.

Fiori e frutti sono il futuro, determinato da tutto quello che c’è stato prima. Bisogna essere un po’ visionari (nell’accezione inglese del termine, da vision cioè immaginare quello che si vuole diventare, a cui si aspira), quindi per dirla con Steve Jobs, essere un po’ affamati (di conoscenza) e un po’ folli[2]


Perché dilungarsi con questa metafora?

Perché mi accorgo quanto spesso sia difficile far comprendere ai pazienti, anche se colti e intelligenti, alcuni concetti base di biologia o riguardanti il corpo umano.

C’è poca abitudine a parlarne, c’è poca conoscenza del funzionamento del corpo umano. Per tornare alla scuola, ci si può diplomare al Liceo Scientifico avendo da un lato tradotto dal latino tutte le Bucoliche, ma dall’altro tralasciato lo studio di alcune parti (fondamentali) del corpo umano.

Per ottenere la patente di guida è obbligatorio avere nozioni elementari sul funzionamento del motore. Però possiamo “portare in giro” il nostro corpo senza sapere molto bene come funziona.

Non l’ho mai fatto, ma credo che se fermassimo per strada cento persone, moltissimi saprebbero riferire qualche nozione su Dante (chi era, che cosa ha scritto, più o meno in che epoca è vissuto), ma molti, molti di meno saprebbero spiegare in maniera sufficiente il principio della circolazione del sangue.

Ed è altrettanto paradossale che a scuola si dedichino ore e ore di studio a Omero e si possa non studiare il neurone. Significa curare solo le radici, ma non alzare la testa!

Quindi ben venga la conoscenza del nostro corpo, di come funziona e di come si può alterare, di come cercare le fonti attendibili per aggiornarsi. Per prendere decisioni corrette e opportune sugli stili di vita, che determineranno la nostra salute futura, e questo vale anche e soprattutto per i ragazzi! E se malauguratamente dovessimo ammalarci, per essere interlocutori più attivi davanti al medico che ci sta spiegando che cosa è successo.

Non ultimo, per vedere ridimensionate le follie, le “derive” della ragione ascoltate per esempio su vaccini ed epidemia in tempi di Covid-19, vi assicuro anche da parte di persone “colte”.

La conoscenza porta con sé anche il lato “oscuro” della consapevolezza della verità. Beata ignoranza! si diceva una volta, e vi assicuro che lo pensano quasi tutti i medici che si ammalano e che, proprio perché conoscono fin troppo bene la materia, provano più spesso angoscia e paura.

Credo però che la conoscenza e la presa di coscienza dovrebbero essere una scelta e l’ignoranza mai subìta. Poi chi non vuole informarsi ha il diritto di farlo, ci sono persone che lo chiedono esplicitamente o che delegano i famigliari a ricevere informazioni, anche a prendere decisioni per sé. Ma anche questo è frutto di conoscenza ed è pienamente legittimo.

[1] Emulsione: dispersione più o meno stabile di un elemento sotto forma di minutissime goccioline (fase dispersa) in un altro elemento (fase disperdente), stanti i due elementi immiscibili (es acqua e olio) [2] Stay hungry, stay foolish, frase che Steve Jobs pronunciò nell’ambito del discorso tenuto alla cerimonia di laurea all’Università di Stanford nel 2005, discorso diventato successivamente famoso e considerato da molti uno dei più belli sulla visione del futuro dei giovani. https://news.stanford.edu/2005/06/14/jobs-061505

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