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Il malato scrittore

donatellagambini

“Scrivere non è vivere. È forse sopravvivere a se stessi. Ma niente è meno garantito”

Blaise Cendrars, L'Homme foudroyé, 1945

“Non si scrive perché si ha qualcosa da dire, ma perché si ha voglia di dire qualcosa”

Emile Cioran, Squartamento, 1979

“Scrivere è uno dei sistemi più semplici e più profondi per fare chiarezza dentro di sé e per tramandare la memoria delle nostre esistenze”

Susanna Tamaro, Cara Mathilda, 1997


L’argomento malattia, specie se tumorale, è stato oggetto di innumerevoli scritti, nel passato, ma in vertiginosa ascesa nel presente. Alla carta stampata si sono aggiunti i più accessibili social, con blog e similari. E’ una sorta di febbre, ci si ammala e si pensa: adesso scrivo (libro o blog poco importa). Ma perché scatta questa molla?

Nel tempo ho avuto modo di avvicinarmi a molti scritti di pazienti oncologici. Anche per definire il titolo questo post ho pensato molto. Si tratta di malati scrittori o di scrittori malati? Nella maggior parte dei casi sono malati scrittori, persone che non scrivevano prima, ma che hanno trovato un motivo o un’occasione per iniziare a scrivere. Mi chiedo se anche i veri scrittori, che hanno affidato alla carta o alle parole la loro dolorosa esperienza oncologica, in quel preciso istante si siano trasformati da scrittori malati a malati scrittori...

Come dicevo avevo già una certa esperienza di “letteratura oncologica”, per interesse personale. A questa si è aggiunta negli anni quella consegnatami dai miei pazienti: persone che hanno scritto un libro in occasione della malattia propria o di un famigliare (e anche in questo caso manterrei la definizione di malati scrittori, perché la malattia di un proprio caro diventa malattia della famiglia intera). Diari, libri di poesie, biografie, ecc, nella mia libreria c’è uno spazio per i libri dei pazienti, spazio a cui tengo moltissimo perché racchiude vite intere.

Ma torniamo alla domanda. Perché? Perché chi si ammala scrive?

Ci ho pensato molto, trovando mie personali risposte. Altri ne potrebbero trovare differenti.

La prima risposta l’ho cercata negli aforismi e quelli scelti all'inizio del post mi pare possano già dare una qualche spiegazione.

La seconda si correla alla sensazione di impotenza. Ci si trova con poco da fare personalmente per modificare la storia della malattia, ci si sente trascinati dagli eventi, i pensieri sono disordinati, si segue quanto viene proposto. Scrivere è un modo per ripristinare un ordine mentale, ma soprattutto per fare qualcosa, con il desiderio, l’illusione e la più o meno riconosciuta ambizione e gratificazione, che altri leggeranno quanto scritto e proveranno compassione (nel senso etimologico del termine, patire con, di condivisione della sofferenza), empatia, piacere, ammirazione nel leggere quanto da noi trasformato da idea a parola.

La terza potrebbe ricollegarsi al concetto di catarsi, inteso nell'accezione della psicanalisi, come liberazione da uno stato di sofferenza, facendo riaffiorare gli eventi che l'hanno causato.

La quarta, solo in parte potenzialmente sovrapposta alle due precedenti, è quella che definirei la ricerca di una compensazione o meglio una trasformazione. Il negativo (idee negative, stati d’animo negativi, dolore o malessere fisico e psicologico) viene utilizzato come molla, come impulso, per creare qualcosa di buono, viene trasformato, quasi si volesse applicare il principio generale dell’energia: la negatività non si distrugge, ma si trasforma in un nuovo frutto: potrebbe essere una cosa buona per sé (iniziare o riprendere un percorso artistico come dipingere, suonare uno strumento), per i propri cari (per esempio dedicarsi alla cucina di pietanze particolarmente gradite, seguire i figli per i compiti a casa), per gli altri in generale... oppure il frutto può essere uno scritto in cui il lavoro mentale, e perché no anche fisico, impiegato per scrivere è il risultato della trasformazione del "negativo" che passivamente ci ha coinvolto.

La quinta e ultima, un poco più pericolosa, è quella di pensare di aver trovato una verità e di cedere alla tentazione di volerla diffondere. Di dare consigli, di dare risposte quando purtroppo a volte non ce ne sono. Perché pericolosa? Perché spesso chi ne parla non ha conoscenza scientifica, si basa sulla personale esperienza, che non può e non deve essere presa come punto fermo. Se si tratta di consigli generali, riguardanti relazioni sociali, consigli su come migliorare il proprio aspetto o la propria vita, ben vengano. Il problema potrebbe nascere quando ci si allontana da un percorso scientifico, si sperimentano approcci alternativi non riconosciuti e il tutto è diffuso come verità, come qualcosa da provare perché "con me ha funzionato, mi ha fatto bene" e tutto si amplifica con un passaparola che può raggiungere velocità inconsuete. Si può diventare preda di una sorta di ambizione, ci si sente benefattori. Si viene trascinati da una corrente diversa da quella dell’impotenza della quale abbiamo già parlato, ma ancora più infida, dando la sensazione, falsa, di aver vinto l’impotenza, perché si sta facendo qualcosa, mentre si sta seguendo solo una corrente diversa.

Qualcuno potrebbe dire che esiste un’altra spinta motivazionale, cioè la ricerca di successo, di notorietà, di visibilità, di un beneficio economico, ma in tutta sincerità credo che, se presente, tale motivazione sia veramente secondaria nel grande popolo degli scrittori malati e che rivesta solo una piccola parte dell’insieme dei motivi che spingono a scrivere.

C’è poi chi scrive di altro, non tratta della malattia, ma scrive un romanzo, poesie o ancora si dedica a raccogliere materiale riguardante la propria famiglia (tipico il caso delle raccolte epistolari di lontani parenti). E questo credo possa ricadere nel fenomeno catarsi. La scrittura, o "l’assemblaggio" di un libro, come mezzo per eliminare un trauma.

Qualunque sia il motivo si è scritto molto, si sta scrivendo moltissimo e credo si scriverà sempre di più.



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